Tra i rifiuti prodotti in Italia c’è un piccolo tesoro che non viene adeguatamente valorizzato. Si tratta dei beni durevoli, potenzialmente riutilizzabili, che potrebbero trovare nuova vita se esistesse il modo di reimmetterli in circolazione.
I beni durevoli riutilizzabili (considerando solo quelli in buono stato e facilmente collocabili sul mercato) presenti nel flusso dei rifiuti urbani superano 600.000 tonnellate annue, circa il 2% della produzione nazionale di rifiuti. Si tratta di mobili, elettrodomestici, libri, giocattoli e oggettistica che, in mancanza di un quadro normativo capace di favorire la strutturazione di vere e proprie filiere, quasi mai vengono riutilizzati: il danno ammonta a circa 60 milioni di euro l’anno relativo ai costi di smaltimento, senza considerare il valore degli oggetti di seconda mano.
Molte sono le iniziative che possono essere messe in campo. Ad esempio raccolte dedicate e centri di riuso adiacenti ai centri di raccolta, in grado di intercettare i beni durevoli riutilizzabili. Sono necessari impianti di “preparazione per il riutilizzo” che funzionino su scala industriale: attraverso un’autorizzazione al trattamento, un impianto può ricevere rifiuti provenienti da centri di raccolta comunali, servizi di sgombero locali e da raccolte domiciliari di ingombranti e reimmetterli in circolazione dopo igienizzazione, controllo ed eventuale riparazione. La fattibilità è stata dimostrata in provincia di Vicenza dal progetto europeo PRISCA, che ha implementato un impianto capace di avviare a riutilizzo circa 400 tonn. l’anno di ingombranti.
Questa possibilità di strutturare la filiera è però inibita dalla mancanza dei Decreti Ministeriali sulle procedure semplificate. “In Italia – spiega Pietro Luppi, Direttore del Centro di Ricerca Occhio del Riciclone – già da alcuni anni si parla di integrare il settore del riutilizzo alle politiche ambientali, e i tempi sembrano essere maturi. Bisogna però insistere su professionalizzazione e pianificazione, il riutilizzo è un’enorme opportunità per generare sviluppo locale e risultati ambientali”.
L’INIZIATIVA PRIVATA E QUELLA PUBBLICA
Nel nostro Paese i negozi dell’usato conto terzi e il commercio ambulante si confermano leader nella vendita dell’usato. Si contano circa 2.000-3.000 negozi, soprattutto al Nord e al Centro, un negozio ogni 31.000 abitanti, mentre al Sud uno ogni 87.000. I mercatini che ospitano commercianti ambulanti sono 550, senza contare quelli informali o abusivi. Il totale degli operatori ambulanti dell’usato è difficile da calcolare ma si presume tra 50.000 e 80.000.
L’iniziativa privata trova oggi grande diffusione nonostante siano scarse le sinergie con gli Enti Locali. 9 Regioni – Lombardia, Piemonte, Veneto, Emilia-Romagna, Friuli-Venezia Giulia, Marche, Umbria, Abruzzo e Campania – hanno incluso nella loro pianificazione l’avvio di Centri di Riuso, ma tali esperienze non sono mai decollate. Eppure non mancano gli esempi positivi, come il progetto “Cambia il finale” di Hera (la multiutility in Emilia-Romagna) che è riuscita a riutilizzare 530 tonnellate di beni durevoli in un anno in un bacino di circa 2 milioni di abitanti, coinvolgendo 25 Onlus e un centinaio di soggetti svantaggiati. “Le aziende di igiene urbana – sottolinea Filippo Brandolini, vicepresidente Utilitalia – svolgono un ruolo cruciale nella transizione verso un’economia circolare. Se non si limitano a gestire i rifiuti conferiti dai cittadini ma diventano promotrici di iniziative innovative, alimentano filiere ad alto valore aggiunto (umano, ambientale, economico e sociale).
IL CASO DEGLI ABITI USATI
Nel nostro Paese, le filiere di indumenti usati sono le più articolate e strutturate: nel 2016 sono state raccolte 133.300 tonnellate di rifiuti tessili, il 65% è stato riutilizzato (il rimanente 35% è stato avviato a riciclo, recupero o smaltimento). Ma il potenziale di riutilizzo della frazione tessile è molto più elevato: il risultato potrebbe raddoppiare superando i 5 kg di raccolta ad abitante. “Chi dona abiti usati consegnandoli nei contenitori stradali – evidenzia Alessandro Strada di Humana People to People Italia – lo fa con intenzioni solidali nell’84% dei casi, e ciò dimostra come il cittadino chieda che le considerazioni di carattere sociale trovino spazio all’interno degli affidamenti del servizio di raccolta della frazione tessile”.
Non mancano le criticità, dai reati ambientali all’infiltrazione mafiosa: gli operatori sani hanno sollevato il problema chiedendo strumenti di controllo più rigorosi e criteri di affidamento del servizio più attenti al funzionamento delle filiere. Utilitalia, Rete ONU e centro Nuovo Modello di Sviluppo hanno aperto un Tavolo di confronto con il settore per individuare linee guida finalizzate a prevenire tali criticità.